venerdì 4 maggio 2018

Erano giorni che si chiedeva quale fosse il titolo di quella canzone e, soprattutto perché, si ritrovasse ovunque a canticchiarla a labbra serrate. In continuazione, senza un inizio o una fine, una nenia ripetuta come una ninna nanna, un mantra. In macchina, per la strada, lungo quei corridoi, con un libro in mano, sotto la doccia, alla scrivania, al supermercato. Era una canzone più che conosciuta ma, la sua mente, ovattata dai pensieri che stravolgevano le sue notti e i suoi giorni, non si decideva ad etichettarla. Arrivava e andava. Tornava e scompariva. Riaffiorava senza pace. Si stupiva da giorni di come mormorasse solo quella cantilena. Arrivava dalle profondità, dalle viscere più lontane, da un luogo sicuro dove trovare una carezza e un riparo. Solo dopo centinaia di inizi era affiorato il titolo e, con esso, un fiume inesorabile e incontenibile di ricordi. Una sera d’estate lontana mille eternità, eppure vicina come l’oggi. Un terrazzo mai visto. Un pergolato mai odorato. La più bella e triste delle lettere d’amore scritte mentre, in sottofondo, le note di quella canzone si confondevano con le stelle di agosto. Righe meravigliose e tragiche dove si raccontava la fine ancora prima di un inizio. Dove tutto ciò che non sarebbe successo era già scritto. 
La ninna nanna era continuata nella sua testa, nel suo stomaco, sulla sua pelle e i corridoi di tutta la vita avrebbero continuato ad ascoltare una meravigliosa triste nenia ripetuta come una preghiera. Forse era follia. Forse era malattia. Forse era altro che non poteva avere un nome.

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