“… Poiché una storia d’amore l’avevo anche io, era la storia di un ragazzo che ama la sua compagna di banco e soffre tantissimo perché lei non lo ama, mi misi a scrivere un romanzo che raccontava di una ragazzo che ama la sua compagna di banco e soffre tantissimo perché lei non lo ama. Il romanzo era brutto e si è fermato dopo alcuni capitoli, scritti in moto faticosissimo. Però in quel tempo in cui mi chiudevo in camera e scrivevo, nonostante lì fuori ci fossero i miei amici, le feste, le ragazze, e anche Elena, Il Movimento; nonostante scrivere fosse molto faticoso e non produceva nulla di buono – mi sentivo felice. In una modo diverso da come lo ero stato tutte le volte che ero stato felice fino ad allora. Avevo la percezione, chiara che stavo scrivendo un romanzo brutto e inutile, ma andavo avanti perché in qualche modo leniva il mio dolore e perché quel tempo di scrittura era una vera sostanza di felicità. E mi dava la sensazione, non ho mai capito perché - me è evidente che è la sensazione che continuo ad avere ora – che non stavo buttando la mia vita. Con i miei amici avevo la sensazione di buttare la mia vita; con Elena no, ma lei non mi voleva, con il Movimento no, ma non avevo abbastanza coraggio per essere come loro. Quindi, l’unico momento in cui davvero potevo sentire di non stare buttando la mia vita, era mentre scrivevo questo romanzo brutto, cosciente che fosse brutto. E forse anche l’atto di scrivere rendeva sopportabile il dolore che provavo. In fondo, mi dicevo che se soffrivo potevo poi scriverne, e quindi incanalavo la sofferenza dentro qualcosa …“
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